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Mercoledì sera  Jerome Powell ha annunciato lo scontatissimo secondo  rialzo dei tassi del 2018, portandoli da 1,5-1,75%. a 1,75-2%.

Meno scontate le intenzioni della FED di applicare altri 2 rialzi quest’anno e ben 4 anche nel 2019.

Un programma di normalizzazione dei tassi ambizioso e che poggia su previsioni economiche quantomeno ottimistiche.

Si ricorda come ogni singolo aumento dei tassi rappresenti un costo piuttosto salato per l’enorme debito complessivo (pubblico + privato) degli Stati Uniti.

In particolar modo, il rapporto tra debito privato e PIL supera il 250% ed è stato contratto prevalentemente a tasso variabile, il che lo rende vulnerabile a qualsiasi rialzo.

Circa il 20% del PIL è legato al credito a consumo e, quindi, un’eventuale stretta creditizia avrebbe forti ripercussioni sulla crescita.

Stretta creditizia favorita dalle insolvenze che, peraltro, ormai da diverso tempo sono in aumento, in particolar modo proprio su quei prodotti privi di collaterali (per esempio prestiti studenteschi, carte di credito, ferie, ecc.), con conseguente impossibilità di recuperare le perdite da parte dei creditori.

La prima convinzione personale è che la volontà di alzare i tassi più velocemente di quanto finora fatto non sia tanto finalizzata a raffreddare l’economia (per di più attualmente non surriscaldata) ma di creare i margini per una politica monetaria espansiva in grado di fronteggiare una futura crisi economica.

La seconda convizione è quella che le dichiarazioni della FED (più o meno corrispondenti alle reali opinioni della Banca Centrale Americana) si rivelino errate.

Non deve essere dimenticato che anche a dicembre 2015, quando iniziò la politica di normalizzazione dopo ben 7 anni di tassi a zero, il programma era quello di 4 rialzi l’anno, ma la realtà fu ben diversa.

Riccardo Fracasso

 

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