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Come promesso, dopo aver esaminato il capitolo della spesa pubblica, ora esprimerò le mie considerazioni in merito a quello delle entrate.

Prima di farlo, è necessaria una brevissima premessa: la politica, con le proprie decisioni, incide fortemente sull’economia, per cui date una chiave di lettura prettamente economica a quanto andrò scrivendo.

Un primo modo per incrementare le entrate è l’alienazione di beni statali improduttivi e non strategici; ciò comunque non significa vendita scriteriata perché s’andrebbe incontro ad un impoverimento dello Stato (oltre che in termini economici anche dal punto di vista culturale e di prestigio).

Anche in questo caso, quindi, tagliare ma con metodo.

Il pericolo è che se dovesse proseguire l’attuale tendenza di tagli orizzontali (che porta al declino), lo Stato finirà col vendere anche  servizi di beni di prima necessità (quali per esempio l’acqua) mettendo la vita delle famiglie nelle mani dei privati, mossi giustamente da interessi economici.

Ad ogni modo, le entrate sono formate in gran parte dal gettito fiscale.

Tuttavia, è bene ricordare che viviamo in un Paese con una pressione fiscale elevatissima (ultima rilevazione Istat al 42,6%), inferiore solo a quella di Stati come Svezia e Danimarca che però ‘in cambio’ offrono un Welfare molto sviluppato.

Nel nostro Paese, invece, l’ormai costante aumento della pressione fiscale è accompagnato da una qualità di servizi pubblici sempre peggiore.

Viviamo in uno Stato in cui si continua a parlare di patrimoniali quando già ne esistono due (IMU e bollo sul dossier titoli).

Non si può proseguire su questa strada perché è la stessa che porta alla rovina e che ci condurrà inevitabilmente sullo stesso piano dei Paesi più poveri al Mondo e col peggior Welfare.

E se anche la pressione fiscale fosse modesta, alzarla in tempi di crisi non è comunque saggio, perché, come abbiamo visto, si rivelerebbe controproducente.

Il prelievo fiscale va inasprito per contenere l’inflazione e migliorare i conti dello stato quando l’economia è in salute, mentre andrebbe ridotto per stimolare la crescita nei tempi di crisi.

Andrò controcorrente, ma quando sostengo che non sia bene alzarla, mi riferisco a tutte le classi, inclusa quella ricca.

Innanzitutto va detto che quel 42,6% è altissimo ed è una media che si alza progressivamente in funzione del reddito.

Pertanto, è giusto ricordare che già ora tutti i lavoratori non evasori, ancor più quelli meglio retribuiti, sono colpiti da una pressione fiscale enorme.

E ancora si parla di dove e come aumentare la tassazione? Assurdo.

Qualsiasi forma che preveda un innalzamento della pressione fiscale (ceto benestante incluso) significherebbe colpire ulteriormente chi già ora paga troppo.

E’ evidente che comunque la si guardi non vi sono margini per chiedere ulteriori sacrifici ai contribuenti, ma le classi politiche, anche per mantenere privilegi che oramai ritengono acquisiti, solitamente preferiscono chiedere ulteriori sacrifici ai cittadini onesti.

Un’economia sana prevede non solo un ceto medio molto ampio, in grado di sostenere i consumi, ma anche un discreto ceto alto in grado di fare investimenti (peraltro tassati) e magari offrire occupazione.

Quindi, per quanto sia doveroso ed indispensabile aiutare il ceto basso (quindi i poveri) e cercare di trasformarlo in ceto medio, colpire le classi con più risorse non è soluzione efficace.

Inoltre, l’accanimento verso chi ha di più (innalzamento delle aliquote più alte, patrimoniali, ecc.) favorirebbe comprensibili fenomeni di esilio fiscale (vedi Depardieu in Francia) con conseguenti mancati introiti per le casse dello Stato.

La caccia non va fatta ai ricchi ma ai finti poveri, anche perché altrimenti il sentimento che muove la richiesta non è più un senso di ingiustizia ma di semplice invidia.

Ora, desunto che un ulteriore aumento della tassazione è inaccettabile oltre che sterile, è bene individuare qualche modo per abbassarla, al fine di stimolare la crescita.

E’ indispensabile aumentare la base imponibile.

L’ISTAT stima che in Italia l’evasione sia pari a circa il 17% del PIL; pertanto, si sta parlando di circa 270 MLD di euro di sommerso.

Esistono alcune opinioni secondo le quali l’importo sia molto superiore; ad ogni modo, manteniamo un profilo basso attenendoci ai dati ISTAT.

Considerando la pressione fiscale del 42,6%, le mancate entrate per lo Stato ammonterebbero a circa 115 MLD di euro l’anno.

E’ comunque bene evidenziare quanto sia impensabile porsi come obiettivo quello di far emergere interamente il sommerso, specialmente se si considera che una parte consistente è collegata alla mafia.

Inoltre, è bene sapere che un conto è far emergere il sommerso e tutt’altro è riuscire a far pagare quanto dovuto agli evasori.

Infine, va inoltre ribadito che una lotta eccessivamente trasversale, per quanto possa essere eticamente ineccepibile,  ucciderebbe quelle numerose attività che sopravvivono grazie ad un po’ di evasione con pesanti conseguenze sull’economia e quindi sul PIL; il pericolo è concreto se si pensa che nei primi 9 mesi del 2012 sono saltate 1.000 attività al giorno (dati della Cgia di Mestre).

Tuttavia, pur tenendo in considerazione i punti appena elencati, ritengo che un ulteriore giro di vite consentirebbe di incrementare le entrate annuali per la lotta all’evasione.

Ciò, oltre a tradursi in risorse utili a ridurre il debito o a tagliare le tasse (opzione che prediligo), significherebbe anche crescita del PIL (che sale grazie all’emersione del sommerso).

Ora, però, vediamo quali sono alcuni dei principali fattori che spingono una persona ad evadere:

  • cattivo uso del denaro da parte dello Stato;
  • cattivo esempio da parte della classe politica;
  • pressione fiscale inaccettabile.

Seppur consapevole che esista un numero consistente di evasori incalliti, sono altrettanto convinto che ci siano molte persone che pagherebbero quanto dovuto se solo abitassero in uno Stato che impone una pressione fiscale accettabile ed offre un Welfare sviluppato, in un Paese in cui i politici non rubano i soldi incassati e fanno gli stessi sacrifici che chiedono ai cittadini, in cui le tasse non sanno mai di presa in giro (per esempio, per quanto riguarda il prezzo del carburante, le diverse accise legate ad emergenze passate (come quella per la guerra dell’Abissinia, conflitto concluso nel 1936!) e sulle quali si applica addirittura l’IVA (quindi tasse su tasse!)).

Difficile, invece, pagare uno Stato che in alcuni casi (sto ovviamente generalizzando) ruba il denaro dei cittadini, o che in altri offre servizi pessimi a fronte di una tassazione esorbitante, o ti punisce se non rispetti regole (ad esempio quella di pagare in tempi accettabili) che lui per primo non segue.

Un altro modo per aumentare l’imponibile fiscale, oltre a quello di far emergere il sommerso, è attrarre capitali dall’estero, ma è obiettivo utopistico fino a che non diventeremo uno Stato come quello precedentemente descritto.

Semmai, sta verificandosi il contrario, dato che un numero sempre più maggiore di aziende sta trasferendo la propria sede locale oltre i confini italiani.

C’è chi a tal riguardo invoca un maggior patriottismo, ma quando un impresario anche e soprattutto per colpa dello Stato si trova a dover scegliere tra far sopravvivere la propria attività all’estero o farla morire nel proprio Paese, non può che optare per la prima strada.

Tutto ciò non può che ricadere sul mercato del lavoro.

In estrema sintesi, servirebbe aumentare l’imponibile fiscale e ridurre la pressione fiscale, mentre stiamo assistendo all’esatto opposto.

Risultato? Recessione, disoccupazione, povertà, fuga dei capitali all’estero, ecc.

Un deciso snellimento burocratico ed agevolazioni fiscali per le nuove imprese favorirebbero la nascita di attività attraverso l’investimento di capitali sia interni che esterni all’Italia.

In questo articolo e nei precedenti ho descritto quelle che a mio avviso devono essere le basi per una buona gestione di uno Stato; seppur io sia convinto che tali linee guida siano indispensabili per ogni Paese, ritengo non siano sufficienti per risolvere la crisi.

Infatti, anche in virtù della necessità di rispettare il vincolo del pareggio del bilancio, per quante risorse si possano liberare intervenendo nei vari punti che ho indicato, difficilmente consentirebbero una sostanziosa riduzione della pressione fiscale, condizione indispensabile per una solida ripresa economica.

Inoltre, nel caso di eventuali future crisi, abbiamo visto che anche paesi con i conti apposto (vedi Irlanda) possono precipitare nel giro di poche settimane.

Prossimamente andremo a vedere cosa, a mio avviso, unitamente ad una indispensabile gestione disciplinata del bilancio, può ampliare i margini per ridurre il prelievo fiscale, favorire la crescita e rendere meno vulnerabile uno Stato nel caso di crisi.

Riccardo Fracasso

 

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