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Negli Stati Uniti esiste una legge che impone un tetto (statutory limit on the public o debt ceiling) oltre il quale il governo non può indebitarsi; tuttavia, la storia americana insegna che tale limite è stato ripetutamente e costantemente innalzato con una nuova legge che sostituiva la precedente.

Nell’ultimo decennio, però, è sempre più difficile giungere ad un accordo tra repubblicani e democratici per modificare tale normativa.

Infatti, nel luglio 2011 si trovò un’intesa solo agli ultimi giorni e, questa difficoltà causò la perdita della tripla A ad opera dell’agenzia S&P, aspetto evidentemente rilevante.

Nel 2013, con Obama, il mancato raggiungimento di un’intesa entro i termini previsti portò al cosiddetto shut down dall’1 al 17 Ottobre.

Col termine shutdown (letteralmente ‘chiusura’) si intende la chiusura, l’arresto dello Stato.

In altre parole, é il blocco delle attività ritenute non essenziali, ma non per questo poco importanti.

Sabato, a circa un anno dell’insediamento di Trump, è scattato nuovamente lo shut down.

Quanto successo era da metter in preventivo potesse capitare nell’era Trump, considerata la posizione molto estrema del presidente.

Difficile trovare un punto in comune tra conservatori e chi ha liberato risorse abrogando l’Obama care (Maggio 2017), per poi impiegarne per attuare un imponente piano che nei prossimi 10 anni taglierà le tasse delle aziende dal 35% al 21%.

Non è un caso che a Settembre dell’anno scorso Trump ipotizzò la rimozione definitiva del tetto del debito.

Quindi posizioni molto distanti che come hanno impedito alle parti di accordarsi per tempo, potrebbero prolungare lo shut down per un periodo superiore al passato, con inevitabili conseguenze sull’economia e sui mercati.

L’entità del danno sarà proporzionato al tempo necessario per raggiungere un’intesa.

Inoltre, indipendentemente dalla durata del blocco, il fatto sia scattato potrebbe portare ad un declassamento del debito americano da parte delle agenzie di rating.

Riccardo Fracasso

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