Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, come molti di voi saprete, è stato cercato e poi raggiunto un accordo che prevede un aumento delle tasse per le persone con redditi superiori a 400.000 dollari (450.000 per le famiglie) che ha evitato un fiscal cliff in versione integrale che avrebbe colpito il 98% delle persone.
Per quanto concerne invece il capitolo ‘tagli della spesa pubblica’ la questione è stata rimandata ma dovrà essere comunque risolta entro la fine di febbraio.
Un’eventuale intesa consentirebbe di innalzare il tetto del debito, limite oltre il quale l’indebitamento americano non può andare e che in realtà è già stato recentemente sforato.
Gli americani sono quindi già oltre al limite del consentito ed hanno a disposizione due mesi scarsi per evitare il peggio.
Evitare il peggio, però, non significa percorrere una strada priva di curve pericolose e di buche, anzi.
Infatti, quanto deciso pochi giorni fa (aumento delle tasse ai più ricchi) e quanto probabilmente sarà concordato entro la fine di febbraio (tagli della spesa pubblica) non fa altro che sancire, per gli Stati Uniti, il passaggio da una politica espansiva ad una di rigore.
Quest’ultima strada è la stessa intrapresa ormai da oltre un anno dai Paesi dell’Area Euro ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il debito è salito mentre la crescita è rallentata o, nei casi più gravi (come per la nostra Italia), è persino diventata negativa (recessione).
Contenere il debito attraverso una riduzione della spesa pubblica che si limita a tagliare gli sprechi è indubbiamente una scelta saggia, ma tutto ciò che in qualche modo toglie risorse ad imprese e famiglie si ripercuote negativamente sull’economia.
Ho più volte scritto che un Paese con sovranità monetaria come gli Stati Uniti non può fallire per motivi economici (ma solo per motivi politici) perché potenzialmente può emettere denaro in modo illimitato; ciò premesso, qualcuno ora potrebbe giustamente chiedersi, allora, il perché di questa improvvisa esigenza degli Stati Uniti di controllare il deficit da parte degli americani.
Domanda più che lecita.
Innanzitutto va sottolineato che la possibilità di emettere denaro è un’arma molto importante ma che bisogna:
- sapere usare: i soldi vanno investiti nel modo giusto, cosa che gli Stati Uniti non hanno dimostrato di saper o voler fare. Il denaro deve servire a ridurre le tasse, creare posti di lavoro, favorire la crescita, ma se invece si continua a consegnarli soprattutto alle banche senza peraltro imporre loro di aprire i rubinetti ad imprese e famiglie l’economia reale ne beneficia marginalmente;
- saper dosare: un’emissione eccessiva di denaro crea inflazione.
Nel momento in cui non si fa bene il primo compito (usare nel giusto modo il denaro fresco) non si ha crescita che, come più volte detto, implica maggiori entrate fiscali per lo Stato, utili a ridurre il deficit.
Non penso sicuramente che il deficit vada considerato come il diavolo (semmai il contrario), ma se va fuori controllo a fronte di una crescita che non regge il passo, la situazione si complica.
In questa situazione il debito aumenta a sua volta in misura esagerata costringendo gli Stati Uniti ad emettere sempre più denaro (il che significa non far bene il secondo compito).
Fermo restando che ad oggi il pericolo è quello opposto (deflazione), dover stampare in modo incontrollato per rifinanziare un debito che non è sostenuto da una altrettanto veloce crescita economica, costituisce terreno fertile per un futuro scenario inflattivo.
In sintesi, dopo ormai qualche anno in cui gli Stati Uniti hanno trascurato il debito, ora sembrano essersi accorti che lo stesso, pur avendo a disposizione l’arma della stampa di denaro, cresce con una velocità eccessiva, specie se la si rapporta a quella della crescita.
Il problema è che, ripeto, fino a che si taglieranno gli sprechi tutto va bene, ma nel momento in cui si tolgono risorse ad imprese e famiglie rallenterà l’economia, caleranno le entrate fiscali e di conseguenza aumenterà il deficit.
La reazione dei mercati all’accordo è stata innegabilmente positiva, ma stiamo pur sempre parlando di una reazione a caldo che deve essere confermata.
Inoltre, i verbali dell’ultima riunione della Fed hanno evidenziato l’intenzione di molti membri di terminare entro il 2013 la QE3 in corso dal 14 settembre; fermo restando che l’uso dei soldi (acquisti delle obbligazioni MBS, in pancia soprattutto alle banche) è un regalo più per le banche che per l’economia reale, l’eventuale venir meno di una misura espansiva contribuirebbe a creare panico sui mercati con vendite che andrebbero a colpire principalmente il settore finanziario.
Riccardo Fracasso
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