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La IMD è una business school (scuola d’affari) che, tra l’altro, dal 1989 pubblica annualmente il World Competitiveness Yearbook (WCY), una classifica sulla competitività di 64 Paesi tra i più importanti al mondo.

Difatti, i risultati di un’impresa non dipendono esclusivamente dalla propria qualità, ma anche dal contesto nel quale esse operano.

Fino al 1996 erano stese due graduatorie (economie avanzate ed economie emergenti), ma dal 1997, col processo della globalizzazione, s’è deciso di unificarle.

Il WCY è considerato il punto di riferimento mondiale sulla competitività delle nazioni, tant’è che è utilizzato dalle aziende (per determinare gli investimenti), dai Paesi (per stabilire le politiche da attuare) e dagli studiosi (per apprendere ed analizzare).

Esso esamina la capacità delle nazioni di creare e mantenere un ambiente in cui le imprese possano competere.

Sono oltre 340 i parametri presi in considerazione dal WCY tra i quali ricordo alcuni dei più importanti: la valuta, il mercato del lavoro, la pressione fiscale, la capacità produttiva del tessuto economico, le infrastrutture, gli investimenti, l’istruzione, un ceto medio numeroso, la burocrazia, la qualità della vita, la presenza nel territorio di materie prime, il patrimonio culturale, l’efficienza del governo, l’ambiente, la salute, il livello dell’inflazione, la demografia, la ricerca e l’innovazione, la diversificazione, la coesione sociale, ecc.

Ecco la classifica diffusa in questi giorni dall’IMD:

Punti da evidenziare:

  • La Danimarca mantiene il 1° posto, quindi primo paese anche dell’Unione Europea;
  • il primo Stato dell’Area Euro è l’Irlanda (2° posto);
  • la più forte salita è dell’Irlanda, con ben 9 posizioni guadagnate rispetto al 2022 (dall’11° al 2° posto);
  • la peggior discesa è della Lettonia con 16 posizioni perse (dal 35° al 51°);
  • nessun Paese tra quelli dell’America Latina rientra tra i primi 40 posti;
  • l’Italia resta invariata al 41° gradino.

Riccardo Fracasso

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