I venti di guerra in Ucraina hanno fatto crollare i mercati azionari di tutto il mondo nella seduta odierna.
In queste situazioni è naturale chiedersi se abbia o meno preso il via l’inversione al ribasso dei mercati azionari.
A tal proposito, ci può correre in aiuto la storia, ben raccontata nel bel libro di Cosimo Natoli e Stefano Natoli: ‘Terrorismo, guerra e mercati finanziari’.
Il libro riporta ed esamina il comportamento dei mercati nel corso dei principali eventi terroristici e bellici dal 1963 in poi.
Ovviamente sintetizzerò il contenuto.
Per quanto riguarda gli atti terroristici, sono ovviamente eventi imprevisti, quindi non scontati dai mercati, e generalmente causano situazioni di panic selling proporzionate all’intensità dell’atto stesso.
Provocano effetti negativi sui mercati azionari, anche se va detto che la durata del panic selling da essi procurato solitamente non va oltre qualche seduta (qualche settimana nei casi più gravi).
Dopo questo periodo i mercati recuperano abbastanza rapidamente quanto perso.
L’attualità, però, ci suggerisce di porre l’attenzione agli eventi bellici.
Sintetizzando, il più delle volte i mercati azionari scendono via via che la guerra si avvicina per poi riprendersi al suo inizio o poco dopo.
Al termine di un conflitto, solitamente il trend dei mercati azionari è rialzista.
Per quanto sia spiacevole anche solo scriverlo, la storia insegna che i mercati azionari generalmente trovano beneficio dai conflitti.
Ciò ha economicamente un senso perché le guerre favoriscono un aumento della spesa pubblica, il che avvantaggia in particolar modo le aziende delle armi, dell’edilizia e della sicurezza.
Poiché gli Stati Uniti sono di gran lungo il maggior produttore di armi al mondo, i mercati azionari sono spinti al rialzo soprattutto quando li vede coinvolti.
Forse non è un caso che i maggiori conflitti che hanno visto protagonisti gli Stati Uniti sono scoppiati proprio nei periodi di una loro crisi economica.
Se tanto mi da tanto, visto che attualmente gli USA non sono in crisi, penso che cercheranno di evitare di partecipare ad un eventuale conflitto.
I soli casi in cui i conflitti presi in considerazione nel libro hanno invertito al ribasso il trend dei mercati azionari sono quelli della guerra del Kippur del 1973 e dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990.
Caratteristica comune di questi due eventi è il petrolio.
Nella guerra del Kippur si arrivò all’embargo del petrolio da parte della Libia e dell’Arabia Saudita nei confronti degli Stati Uniti.
Nel conflitto del Kuwait Saddam Hussein dapprima minacciò di far esplodere i pozzi petroliferi e poi passò ai fatti.
In entrambi i casi l’effetto fu quello di una forte salita del prezzo del petrolio, ovviamente nociva per le economie importatrici di energia, come gli Stati Uniti.
In buona sostanza, se in questi due conflitti i mercati azionari ne uscirono con le ossa rotte non fu per la guerra ma per le ricadute della stessa sul comparto petrolifero.
L’Ucraina, per quanto disponga di importanti gasdotti, non ritengo sia in grado di produrre lo stesso impatto dei conflitti di Kippur e dell’invasione del Kuwait.
Inoltre, per i motivi precedentemente citati, ritengo che gli Stati Uniti non abbiano grandi interessi economici per partecipare ad una guerra.
In buona sostanza, trovo che le tensioni in Ucraina anche se dovessero degenerare in un conflitto possano essere prese come un pretesto per una correzione dei mercati azionari (a maggior ragione dopo tanto correre), ma non per una vera inversione.
Semmai ci sarà un’inversione, a mio avviso, sarà per altri motivi.
Mi preme concludere con l’auspicio che il dialogo tra le parti possa evitare lo spargimento di altro sangue.
Riccardo Fracasso
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