Mercati: il peggio alle spalle?
Quante volte negli ultimi anni è capitato di chiedersi se il peggio per le economie fosse passato o, rivolgendo l’occhio alla finanza, se i minimi toccati dai mercati azionari degli ultimi anni fossero destinati a rimanere tali.
Queste sono domande tuttora molto attuali.
Ben consapevole che nessuno è a conoscenza del futuro con certezza, ben che meno io, ritengo però che sia possibile raccogliere qualche prezioso elemento individuando i motivi che hanno condotto ai precedenti minimi.
Tutto ebbe origine con una politica monetaria espansiva eccessivamente prolungata da parte della Federal Reserve (con l’allora presidente Greenspan), che generò una bolla di dimensioni enormi.
In quel caso la bolla si manifestò nel mercato immobiliare americano (per amor di precisione scoppiò anche in altri Paesi, come Regno Unito, Irlanda e Spagna).
Il mercato immobiliare è il settore più importante dell’economia USA, la quale, a sua volta, è notoriamente l’economia più importante ed influente al mondo.
Di conseguenza, lo scoppio della bolla immobiliare americana significò crisi economica non solo per gli USA ma per l’intero Mondo (per alcuni Paesi rallentamento e per altri pesanti recessioni).
Grazie ad una politica espansiva di dimensioni straordinarie (seppur in misura differente tra i diversi Stati), i mercati azionari e le economie ripresero.
Tuttavia, la crisi ha fatto emergere tutte le fragilità della nostra Eurozona, la cui ripresa ha continuato e tuttora continua a stentare, in particolar modo nei Paesi meridionali.
In riferimento al nostro Ftse Mib, esso precipitò in area 12.300 punti in due occasioni:
- nel 2009 a causa della gravissima crisi globale citata;
- nel 2011 quando le ipotesi di fallimento italiano e di spaccatura dell’Area Euro divennero sempre più concrete.
Ora, per farsi un’idea sulle possibilità che tali livelli siano destinati ad essere rivisti o persino violati, è bene capire proprio se le motivazioni che al tempo spinsero i mercati verso livelli talmente bassi siano o meno da considerare dietro le spalle.
Partiamo da alcuni attuali punti positivi:
- sentiment positivo del mercato americano con forte propensione al rischio (vix contenuto e margin debt in forte crescita);
- politica monetaria che al momento resta estremamente espansiva;
- mercato immobiliare USA (preso come termometro dell’economia americana che, come detto, esercita notevole influenza su tutti i Paesi) che da diversi mesi gode di ottima salute;
Fino a che tutti questi elementi permarranno, ed in assenza di eventi imprevisti e fortemente negativi, sarà difficile assistere ad un’autentica inversione.
Questi elementi, unitamente alla mancanza di alternative (i rendimenti del mercato obbligazionario sono tuttora molto bassi e quindi poco convenienti), mi portano a sostenere che al momento le condizioni siano favorevoli ai mercati azionari.
Tuttavia, se si allunga l’orizzonte temporale, lo scenario non è poi così rassicurante.
Per quanto concerne la forte propensione al rischio, abbiamo visto recentemente in un articolo (‘Margin debt: analisi’) come, se da una parte è vero che il ricorso all’indebitamento per l’acquisto di titoli azionari è logicamente favorevole ai mercati azionari, dall’altra la situazione è insostenibile nel tempo e nel momento in cui la mano primaria non dovesse (o non volesse) più contenere le correzioni, alle normali vendite si aggiungerebbero quelle forzate dei titoli vincolati al margin debt, amplificando il movimento ribassista e creando panico.
Passando alla QE3, è notizia recente che Bernanke ha annunciato l’intenzione della FED di ridurla gradualmente a partire dal 4° trimestre di quest’anno e di interromperla a metà del prossimo.
In buona sostanza si sta parlando della exit strategy, peraltro già avviata a inizio anno dapprima attraverso l’aumento della pressione fiscale per le persone con alto reddito ed in seguito con il Sequester (vedi articolo ‘Debito Stati Uniti: facciamo chiarezza’).
E a ciò va aggiunto il fatto che resta tuttora aperta la questione del tetto del debito, superato, in via eccezionale, da ormai diversi mesi.
La speranza USA è che l’economia sia presto in grado di reggere sulle proprie gambe.
Giusto sperare ma doveroso tener in considerazione il fatto che con l’interruzione della QE3 verrebbe meno proprio l’elemento che nel 2009 ha consentito ai mercati, ed in misura inferiore alle economie, di ripartire.
Pertanto, molta meno liquidità che finora ha sostenuto il mercato obbligazionario americano e non solo.
Exit strategy, infatti, significa anche minori risorse dello Stato per stimolare l’economia, e quindi pure per quel mercato immobiliare che fa da traino per l’intero sistema.
Nel passato, l’interruzione della QE1 e della QE2 causarono notevoli correzioni da parte dello S&P 500, interrotte solo grazie all’annuncio di nuovi piani di emissione di denaro.
Ora, anche volendo ipotizzare lo scenario che vede gli Stati Uniti mantenere ancora per diversi anni l’attuale politica espansiva (d’altra parte nel 2014 vi sarà un nuovo presidente della Federal Reserve che potrebbe avere intenzioni diverse da quelle di Bernanke), i problemi non mancherebbero.
Infatti, s’è affermato in più occasioni come una politica accomodante eccessivamente prolungata sia inevitabilmente fonte di bolle (come per esempio quella immobiliare USA scoppiata nel 2007).
Già oggi, definire prolungata la politica espansiva degli Stati Uniti appare un eufemismo: stiamo parlando di tassi che si attestano allo 0-0,25% dal dicembre del 2008 (oltre 4 anni e mezzo!) e di 3 imponenti quantitative easing.
Personalmente sono favorevole alla emissione di denaro fresco, ma lo stesso deve essere usato nel modo giusto, perché se il trasferimento della liquidità da banche ad economia reale risulta marginale, si riducono notevolmente gli effetti positivi, si allungano i tempi per raggiungere una ripresa auto-sostenibile, e permane la necessità di una politica monetaria espansiva che, come detto, alimenta bolle che ad oggi sono già in grado di far parecchio male.
A livello globale abbiamo un’enorme bolla sul mercato obbligazionario, e chi non se ne fosse accorto prima magari ne ha preso coscienza poche settimane fa, proprio quando Bernanke ha comunicato l’intenzione di ridurre/interrompere la QE3.
Quanto successo a giugno sui mercati obbligazionari ed azionari è un semplice assaggio di quanto dovrebbe succedere in futuro.
L’attuale bolla obbligazionaria non è meno preoccupante di quella immobiliare del 2007, che tanti danni provocò, e solo questo sarebbe sufficiente per metter almeno in dubbio la convinzione che il peggio sia alle spalle.
Inoltre, i livelli raggiunti dal margin debt, ci segnalano una bolla sul mercato azionario Statunitense.
Lo stesso mercato immobiliare USA è surriscaldato, seppur in misura nemmeno paragonabile a quella del 2007.
Per di più, le recenti vendite del mercato obbligazionario hanno portato liquidità sul mercato azionario USA.
In altre parole, una bolla, sgonfiandosi, sta alimentandone ulteriormente un’altra.
Le bolle sono sempre destinate a scoppiare e certamente non in modo indolore.
Tenendo in considerazione quanto finora scritto, si potrebbe sintetizzare: o gli Stati Uniti allentano la politica espansiva (drenaggio di liquidità che di certo non fa bene) o la mantengono (gonfiando ancor più bolle che faranno ancor più danni quando scoppieranno).
Le due alternative non sono poi così allettanti.
In sintesi, la motivazione che spinse il nostro listino ad andare sui minimi nel 2009, la crisi globale, ad oggi non è presente ma sussistono i presupposti per riviverla.
Ora passiamo alle motivazioni che ha portato il Mib a toccare per una seconda volta i minimi (2011): rafforzamento dell’ipotesi di un fallimento dell’Italia e della spaccatura dell’Area Euro.
In merito alla possibilità di default da parte dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà, solo l’intervento di Draghi, nel Luglio 2012, fu in grado di riportare fiducia sui mercati ed evitare nuovi minimi.
Da allora, però, i principali indicatori economici (disoccupazione, crescita, ecc.) dei Paesi dell’Area Euro sono costantemente peggiorati, tendenza particolarmente accentuata per alcuni Stati, tra cui la nostra Italia.
Ed il principale colpevole di tale peggioramento è l’Austerity, strada che, nonostante qualche segnale di cambiamento, non è certo stata abbandonata.
Infatti, se da una parte sono utili alcuni provvedimenti da parte del nuovo governo (parziale pagamento dei debiti della PA nei confronti dei privati, posticipazione dell’applicazione dell’IMU sulla prima casa e del rialzo dell’IVA), dall’altra dichiarare di voler rispettare il tetto del 3% del rapporto PIL/Deficit significa porsi dei margini di manovra strettissimi.
Margini che si riducono ulteriormente se si pensa che l’aumento dei rendimenti, dovuto allo sgonfiamento dell’enorme bolla obbligazionaria presente a livello globale, coinvolge anche i titoli di Stato, il che implica la crescita dei costi per il Paese.
E la coperta si fa quindi sempre più corta.
Ed è utopistico pensare che la BCE con lo scudo anti-spread sia la soluzione a tutti i mali perché se effettivamente un Paese decidesse di farne ricorso, si vedrebbe costretto a rispettare condizioni di Austerity ancor più rigide delle attuali che, come detto, creano recessione e povertà.
Tirando le somme di quanto finora scritto, i motivi che al tempo ci spinsero ai minimi sono minacce ancora da tenere in seria considerazione.
Lo scenario migliorerebbe con una decisa inversione di marcia dell’Area Euro, con la BCE che stampa come la FED e con tutte le banche centrali che usano bene i soldi emessi, ma su questo è difficile essere ottimisti.
Riccardo Fracasso
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