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Recentemente s’è affermato che per ridurre il debito serve ovviamente intervenire su spesa ed entrate, sottolineato che “la seconda voce è la più semplice (ma non per questo la più giusta) su cui agire tant’è che le manovre solitamente (o forse sempre) si basano principalmente sull’aumento della pressione fiscale.”.

S’è inoltre illustrata la catena recessiva (che riduce l’imponibile fiscale) innescata dai Piani di rientro dal debito.

Avendo sempre criticato chi si limita a puntare il dito senza proporre alternative credibili, in questo articolo inizierò ad indicare dove, a mio parere, è possibile e doveroso agire e dove invece non lo è.

In questo post tratterò il capitolo della spesa pubblica per poi parlare delle entrate in un’altra occasione.

Si faranno anche osservazioni banali, ma a quanto pare non abbastanza se si considerano le linee guida delle varie autorità.

La primissima cosa che fa una famiglia in difficoltà è quella di tirare la cinghia, eliminando le spese superflue.

E’ dalle spese, quindi, che bisogna iniziare perché ogni euro risparmiato equivale ad un euro guadagnato.

Andiamo allora a vedere, con l’ausilio di Wikipedia, le voci che concorrono alla formazione della spesa pubblica:

  • spesa per servizi pubblici primari o essenziali quali infrastrutture pubbliche e trasporti;
  • spesa  per i servizi pubblici offerti al cittadino dalla pubblica amministrazione (es. governo, parlamento, ministeri, tribunali, regioni, province, comuni, Aziende sanitarie, comunità montane);
  • spesa sociale  (spesa per pubblica istruzione, spesa per ammortizzatori sociali (cassa integrazione, indennità di disoccupazione, ecc.) spesa assistenziale (sanità pubblica) e previdenziale (e relativi enti quali INAIL, INPS, INPDAP));
  • spesa per armamenti, difesa militare e pubblica sicurezza interna;
  • spesa per finanziamento di ricerca e sviluppo scientifico-tecnologico dei rispettivi enti pubblici di ricerca (Università, CNR, ENEA, INFN, INAF, INGV ecc.).
  • spesa per finanziamento, gestione e manutenzione di beni artistici e culturali, proprietà statali ecc.
  • spese per eventuali disastri, calamità naturali e ambientali.
  • spesa per copertura e interessi sul debito pubblico in scadenza;
  • spesa per servizio pubblico radiotelevisivo.

La spesa pubblica italiana ammonta complessivamente a poco più di 800 MLD di euro di cui circa 85 derivano dagli interessi passivi che lo stato deve pagare annualmente ai sottoscrittori di Titoli di Stato.

Innanzitutto va detto che non bisogna tagliare in modo indiscriminato le uscite.

Tra le spese, per esempio, vi sono quelle per l’istruzione, componente che può regalare ad un Paese anche qualche decimo di PIL.

Tra le uscite vi sono quelle per la sanità e questo è un bene irrinunciabile, un diritto che ogni contribuente ha il diritto di pretendere, alla pari della sicurezza.

Inoltre, un popolo più sano produce di più, il che favorisce la crescita.

Ad ogni modo, considerato l’enorme costo della sanità in Italia, è lecito pensare vi siano ampi margini per ottimizzare le risorse ed eliminare gli sprechi.

Il processo di razionalizzazione va ovviamente esteso ad ogni capitolo di spesa.

Tra le spese, inoltre, come vedete nell’elenco, vi sono quelle delle pensioni e tagliarle vuol dire sottrarre risorse ai cittadini e quindi al consumo.

Inoltre, se da una parte innalzare l’età pensionabile si traduce in una riduzione della spesa per lo Stato, dall’altra significa anche meno posti di lavoro per i giovani e quindi probabile incremento della disoccupazione giovanile; ciò, finisce per ricadere sul sistema previdenziale stesso perché le pensioni che lo Stato eroga attualmente trovano copertura nei contribuiti di chi lavora, ma se gli occupati diminuiscono costantemente si richiederanno loro sempre più sacrifici (tendenza peraltro già in corso da diversi anni).

In buona sostanza, la coperta si fa e si farà sempre più corta.

Quindi, anche per garantire le cosiddette pensioni d’oro (assolutamente sproporzionate se si considerano i contribuiti versati) si riducono al minimo quelle degli altri.

E’ un’enorme ingiustizia, ma non c’è la volontà di toccare un diritto acquisito seppur altamente iniquo.

Così si ruba il presente ai giovani disoccupati ed il futuro a quelli occupati, che andranno in pensione ad età eccessivamente avanzate, con pensioni insufficienti per vivere e ridicole se confrontate a quanto regolarmente versato durante la vita lavorativa.

L’innalzamento dell’età pensionabile va quantomeno abbinato ad una politica che favorisca la creazione di nuovi posti di lavoro, ma la strada scelta (aumento della pressione fiscale in piena recessione) invece li brucia.

Questi sono solo alcuni esempi, ma il concetto di base che voglio passarvi è che una buona manovra non è quella che taglia la spesa pubblica, ma quella che lo fa con criterio.

In sintesi, bene tagliare la spesa ma doveroso farlo con metodo.

Ciò, comunque, non significa che non vi siano margini di azione, anzi.

Di seguito, qualche esempio.

Abitiamo in un Paese di poco più di 60 milioni di abitanti ma con un parlamento quasi doppio a quello  degli Stati Uniti la cui popolazione, però, è oltre cinque volte la nostra.

Siamo in un Stato in cui lo stipendio del capo della polizia (prendo lui come esempio, ma ce ne sarebbero molti altri) supera notevolmente quello del presidente degli Stati Uniti, per non parlare dei salari degli stenografi o di quelli dei barbieri (di questa figura è discutibile non solo lo stipendio ma pure la stessa presenza).

Sia chiaro, si sta parlando di professionisti che non hanno alcuna colpa e che probabilmente svolgono egregiamente la loro professione, ma lo spreco è evidente e rilevante.

I margini di taglio salgono se si considerano tutti i privilegi di cui godono i vari politici e si moltiplicano se si  estende la ricerca agli enti locali (regioni, province, ecc.).

Il risparmio è destinato a salire ulteriormente eliminando i tantissimi sprechi (consulenze pubbliche inutili, ecc.) che sono ormai all’ordine del giorno.

E’ necessario quindi anche un severo controllo della pubblica amministrazione che consenta di sanzionare in modo esemplare (anche attraverso il licenziamento) le mele marce (mi riferisco per esempio a chi sistematicamente timbra il cartellino per poi andare a fare la spesa) partendo dall’alto (quindi dalla dirigenza) per poi scendere verso il basso; tutto ciò si tradurrebbe in maggiore efficacia e qualche altro decimo di PIL.

Servono sindacati non schierati politicamente e che si rendano conto che intestardirsi a difendere i lavoratori disonesti vuol dire danneggiare quelli onesti.

Considerato quanto finora scritto, appare evidente che tra le pieghe della spesa pubblica  vi sono diversi punti sui quali intervenire senza che gli stessi provochino contraccolpi sulla crescita e sulla qualità dei servizi.

Prossimamente si parlerà delle entrate.

Riccardo Fracasso

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