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La volatilità è un indicatore che rappresenta la variabilità dei rendimenti, ed è stimata sulla base della deviazione standard (scarto quadratico medio  delle variazioni del prezzo),  una grandezza che rende conto della tendenza dei prezzi ad allontanarsi dalla loro media.

Ecco riportata la formula:


                             X=    singolo rendimento

                            X  =   media aritmetica dei rendimenti

                             n  =  numero rendimenti

Ci fornisce quindi una misura di quanto il rendimento effettivo potrà esser superiore od inferiore al rendimento atteso, informandoci di quanto affidabile possa essere una previsione di rendimento.

Se le variazioni del rendimento di un asset finanziario sono più o meno sempre costanti (volatilità bassa), allora una previsione su un rendimento futuro sarà abbastanza affidabile; se invece la volatilità è alta, ogni previsione di rendimento risulterà più incerta.

Si noti che una bassa volatilità non è dovuta a rialzi di piccola entità, ma solo dal fatto che essi hanno ampiezza abbastanza costante; difatti, un sottostante che guadagna costantemente il 10-11% al giorno, ha una volatilità bassa.

Generalmente i mercati azionari subiscono violente perdite in un contesto di elevata volatilità (superiore ai 25), mentre un basso valore (compreso nell’intervallo 15-25) rappresenta terreno fertile per un rialzo; una volatilità molto contenuta (inferiore a 15) non favorisce né i grandi rialzi né i crolli.

Una volatilità contenuta significa scarsa avversione al rischio, che fino a che è mantenuta è favorevole al mercato azionario ma è bene ricordare che è proprio quando gli investitori tengono eccessivamente bassa la guardia che si avvicinano le inversioni ribassiste; viceversa, un’alta volatilità sfavorisce il mercato azionario ma è pur vero che è proprio nelle situazioni di eccessivo pessimismo che  si creano le occasioni per i migliori rialzi.

La volatilità rappresenta quindi un indicatore di Risk on – Risk off.

La rottura di un supporto dell’indice sottostante è l’occasione per la volatilità di manifestarsi concretamente.

Una delle caratteristiche della volatilità è la ciclicità, particolare secondo il quale tende a muoversi in cicli: aumenta fino a raggiungere un massimo, si inverte e diminuisce fino a raggiungere un minimo e quindi riprende il ciclo.

Ad ogni modo la volatilità può mantenersi su livelli di ipercomprato o di ipervenduto addirittura per qualche anno, per cui, quando la volatilità è in fascia di ipercomprato (ed è quindi lecito attendersi nel lungo periodo un calo),  prima di entrare in un mercato è bene attendere che la volatilità stessa  sia respinta dalla curva superiore della  Bollinger band.

Viceversa, quando la volatilità è in fascia di ipervenduto (ed è quindi lecito attendersi nel lungo periodo un rialzo), prima di uscire dal mercato o di prendere posizioni ribassiste è bene attendere che la volatilità stessa rimbalzi dalla curva inferiore della Bollinger band.

Comunque è molto più attendibile la fascia  di ipervenduto della volatilità che quella di ipercomprato, essendo i margini di fluttuazione al rialzo non altrettanto definibili in modo netto quanto quelli al ribasso.

Tanto maggiore è la volatilità, tanto più ampio è il range del rendimento atteso, aumentando quindi le possibilità di perdite (quindi il rischio) ed al contempo quelle di guadagno.

Un esempio può esser utile:

        rendimento storico annualizzato = 8%

        volatilità storica = 15%

        considerando il rendimento storico atteso pari a quello storico, abbiamo:

                         

Nell’esempio, in base alla volatilità ed ai rendimenti storici è probabile, ma non certo, un rendimento annuo che non superi il 23% di guadagno ed il 7% di perdita.

Per la precisione, statisticamente ci sono sempre il 68% di probabilità di ritrovare al quotazione compresa nell’intervallo calcolato applicando la volatilità al rendimento atteso.

Per rendimento atteso si intende la media ponderata di tutti i possibili rendimenti futuri; ciononostante abbiamo visto che spesso si considera rendimento atteso il rendimento storico, ossia quello passato.

Esistono tre tipi di volatilità:

·    La volatilità attesa è un valore incerto, deriva infatti da una stima realizzata nel presente ipotizzando un andamento futuro.

E’ dunque importante trovare un metodo per stimare la volatilità del titolo nel periodo a venire.

La volatilità storica e la volatilità implicita sono dunque due modalità per effettuare tale stima;

·    La volatilità storica consiste nella stima della volatilità del titolo attraverso l’osservazione delle variazioni del prezzo in un periodo precedente alla data di valutazione del contratto.

L’ipotesi di fondo si basa sul presupposto che la volatilità futura sarà approssimativamente pari a quella manifestata nel passato.

Per il calcolo della volatilità “storica” si procede alla determinazione della serie dei rendimenti periodali in un dato lasso temporale e al calcolo della relativa media.

Vengono poi calcolati gli scostamenti elevati al quadrato di ogni singolo rendimento rispetto alla media; la media di tali scostamenti è la varianza, la cui radice quadrata determina la deviazione standard dei rendimenti periodali del titolo, riferita a quell’arco temporale.

·    la volatilità implicita consiste nella determinazione a ritroso della volatilità a partire dal prezzo di mercato dell’opzione.

L’ipotesi sottostante è che il mercato sia efficiente nel valutare la volatilità futura del titolo.

Si può quindi affermare che nell’esempio si è considerata come volatilità attesa quella storica.

La volatilità è divisibile in due omponenti:

·    rischio specifico = rischio connesso alle condizioni specifiche dell’emittente del titolo;

·    rischio sistematico = rischio connesso alle condizioni generali del mercato in cui il titolo (o indice) è scambiato.

Nel caso di una corretta diversificazione si elimina il rischio specifico, e resta il solo rischio sistematico che è misurato con β (beta).

La volatilità è, quindi, un indicatore di rischio, ma allo stesso tempo un indicatore di  rendimento, poiché il maggior rischio   di perdita, significa anche possibilità di performance migliori.

Pertanto, non c’è rendimento senza rischio, per cui, chi ricerca alti rendimenti non deve scordare che son accompagnati da rischi elevati,  mentre l’investitore che persegue un rischio basso non può attendersi notevoli performance. 

Per misurare il rapporto rischio/rendimento è possibile utilizzare l’indice di Sharpe (Sharpe ratio),  che calcola l’extrarendimento generato da un investimento con rischio rispetto ad uno privo di rischio (normalmente inteso come il tasso d’interesse di prestiti statali AAA a  breve scadenza), e lo rapporta al rischio sostenuto ed espresso dalla volatilità.

Viene così indicato il rendimento in termini percentuali per ogni unità di rischio del nostro investimento.

Se è il rendimento del portafoglio, la sua deviazione standard (volatilità), e denota il tasso d’interesse privo di rischio, l’indice di Sharpe del portafoglio è pari a:


Un indice di sharpe elevato indica un’elevata capacità del portafoglio di remunerare l’esposizione al rischio totale (volatilità).

Un secondo indicatore per valutare se l’entità dell’extrarendimento giustifichi il maggior rischio, è l’indice di Treynor che, a differenza di Sharpe, considera come rischio solo quello sistematico, misurato dal β (beta):

Un indice di Treynor elevato indica un’elevata capacità del portafoglio di remunerare l’esposizione al rischio sistematico (β).

Un investitore con una scarsa diversificazione subisce anche il rischio specifico e deve quindi considerare l’intero rischio e quindi avvalersi dell’indice di Sharpe.

Una corretta diversificazione, invece, annulla il rischio specifico; in tal caso l’investitore può utilizzare sia l’indice di Sharpe che quello di Treynor.

Alcuni considerano poco utile la volatilità come indicatore di rischio, poiché considera allo stesso modo i rendimenti superiori alla media e quelli inferiori.

A tal proposito, lo Shortfall è un indicatore che misura la probabilità che il rendimento offerto dal titolo sia inferiore ad una certa soglia stabilita dall’investitore.

Anche in tal caso un esempio può esser utile:

soglia di rischio stabilita dall’investitore = perdita del capitale iniziale

serie storica dei rendimenti =    5%, -2%, 1%, -10%, 3%

In due anni su cinque il rendimento è stato negativo, il che equivale ad un Shortfall con probabilità del 40%.

Tale indicatore ha il difetto di non considerare l’entità delle perdite: nell’esempio, se il -2% fosse sostituito con un -50%, le probabilità di shortfall resterebbero del 40%.

Tornando alla volatilità, nel Settembre 2009 un gruppo di ricerca coordinato dal professor Mario Tonveronachi presentò al Siena Workshop su Financial crises and regulation un’analisi, per il periodo 1/3/2000-30-7-09, mirata a studiare la relazione tra DAC 30, FTSE 100, CAC 40 e i rispettivi indici di volatilità (VDAX, VFTSE, VCAC).

L’analisi permette di definire come ‘normal level’ la chiusura tra 28 e 20 punti  e ‘abnormal low level’ la chiusura al di sotto dei 17 punti; va inoltre precisato che vennero considerati ‘abonormal lows level’ solo quando tali livelli avevano una continuità di almeno 6 mesi consecutivi.

Ciò premesso, fu dimostrato che in fasi di prolungata bassa volatilità, con indici di volatilità costantemente al di sotto dei 17 punti, i rispettivi indici azionari ‘vanno in bolla’; viceversa quando la volatilità rimane persiste all’interno dei ‘normal levels’ (20-28 punti) i rispettivi indici azionari ‘non vanno in bolla’.

Inoltre le bolle sono autoalimentate: i periodi di bassa volatilità conducono i prezzi più alti che a loro volta inducono ad una volatilità ancora minore, rischi minori, volumi maggiori, ecc.

Tale processo porta ad una sopra-valutazione dei prezzi azionari che ad un certo punto dovrà necessariamente essere corretta in funzione della crescita reale dei settori interessati.

Con tale studio è stato inoltre evinto che quando l’indice della volatilità rimane costantemente sotto gli ‘abnormal low level’ i volumi delle opzioni sull’indice azionario sottostante aumentano significativamente rispetto ai periodi in cui l’indice di volatilità rimane all’interno dei ‘normal level’.

In America l’indicatore di volatilità più utilizzato è il Vix, il Chicago Board Options Exchange (CBOE) Volatility Index che indica l’aspettativa di volatilità del mercato a 30 giorni.

Il primo Vix fu introdotto da CBOE in collaborazione con Whaley nel 1993 ed era una misura ‘pesata’ della volatilità implicita di otto opzioni S&P; 100 at-the money put e call.

Il Vix considera quindi la volatilità implicita e non quella storica.

Nel 2003, CBOE in collaborazione con Goldman Sachs ha modificato la struttura del Vix introducendo per il suo calcolo l’uso di opzioni basate su un indice più rappresentativo, quale lo S&P; 500, includendo anche le opzioni out.of the money.Questa scelta è stata presa per motivi di liquidità.

 In buona sostanza, il Vix è un indice che riporta i movimenti di copertura del sottostante; maggiore è il suo valore e maggiore è la copertura tramite derivati da parte degli operatori.

Il Vix è calcolato in tempo reale durante le sessioni di trading in punti percentuali; questo si traduce nell’aspettativa dei movimenti dell’indice S&P; 500 a 30 giorni, su base annualizzata. Per esempio un Vix pari a 15 punti indica una variazione attesa annualizzata del 15% per i prossimi 30 giorni.

La metodologia CBOE per calcolare l’indice non è applicabile unicamente ai prezzi dello S&P, potendo essere utilizzata per qualsiasi mercato di index options purchè il sottostante mercato di opzioni sia molto liquido.

Infatti, i principali mercati azionari europei adottano la metodologia Vix per costruire benchmark di volatilità attesa a breve termine.

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