From the daily archives: mercoledì, Settembre 7, 2016

Sin dal primo Check Up del 2016 ho suggerito di prendere in considerazione la possibilità che quest’anno, contrariamente da quanto programmato lo scorso Dicembre (un rialzo dello 0,25% ogni trimestre), la FED avrebbe alzato i tassi una volta o persino nessuna.

Col passare del tempo tale scenario ha preso effettivamente forma, tanto più se si considera che è alquanto improbabile che alle prossime tre riunioni in programma da qui a fine anno assisteremo a più di un rialzo.

Semmai, è più ragionevole porsi domande se quel rialzo vi sarà e quando.

La prossima riunione della Federal Reserve si terrà il 21 Settembre, tra due settimane.

Azzardando una previsione, ritengo che in quell’occasione non saranno mossi i tassi, principalmente per i seguenti motivi:

  • i dati sull’inflazione continuano a non indicare un surriscaldamento economico;
  • l’anno delle elezioni la Banca Centrale Americana è quantomeno restia ad applicare misure restrittive.

In buona sostanza, a meno che in questi mesi non dovessimo assistere ad un forte rialzo dell’inflazione, sono orientato a pensare che la FED prenderà in seria considerazione l’ipotesi di un rialzo solo alla riunione del 14 Dicembre (quelle di Settembre e di Novembre precedono le elezioni), a distanza di giusto un anno dall’ultimo isolato rialzo.

Tuttavia, non si può dar nulla per scontato poichè le Banche Centrali talvolta sorprendono e la posizione di quella Americana è tutt’altro che semplice.

La politica espansiva senza precedenti (tassi a zero e ingenti QE) era animata dalla volontà di spingere la ripresa, iniettando liquidità, favorendo il credito.

In un ciclo economico normale, una Banca Centrale si sarebbe trovata costretta a raffreddare l’economia già da diverso tempo.

Tuttavia, come evidenziato, l’inflazione non è assolutamente elevata, ed il motivo va ricercato principalmente nella stretta creditizia da parte del settore bancario (concetto ancor più valido per l’Area Euro), il maggior canale di trasmissione della liquidità.

Nel momento in cui la stretta si allenterà, è logico pensare ad una netta risalita dell’inflazione, ma non è questo il momento.

Finora la politica economica espansiva non ha portato inflazione sull’economia reale ma sugli asset finanziari (mercato obbligazionario ed alcuni indici azionari, in primis proprio quello americano).

S’è quindi creata una netta scollatura tra economia e borsa, scollatura destinata a rientrare attraverso un rialzo dell’inflazione e/o con un calo dei mercati azionari.

Non c’è proporzione tra la ripresa economica e gli interventi espansivi adottati in questi anni.

E non c’è proporzione nemmeno tra il rialzo del mercato azionario americano degli ultimi sette anni e la crescita economica, tant’è che il rapporto tra capitalizzazione della borsa e PIL indica una netta sopravvalutazione della prima, superiore a quella che ha preceduto il crollo avviatosi nel 2007.

Ad ogni modo, come detto, la Federal Reserve si ritrova in una posizione complicata.

Spesso si pensa che la politica espansiva sia la soluzione di tutti i mali, senza pensare che spesso ne è l’origine:

  • Innanzitutto è giusto affermare che una marcata politica espansiva spesso porta a bolle, e la Federal Reserve è ben consapevole di quelle presenti sul mercato obbligazionario e anche sulla propria borsa. Bolle che più si gonfiano e più diventano pericolose ed incontrollabili.
  • Una politica di tassi a zero elimina una importante fonte di reddito per le banche, e ciò rappresenta un notevole problema per i bilanci.
  • Il problema coinvolge pure i fondi pensione (in particolar modo le linee garantite), costretti anch’essi a ricercare reddito attraverso forme d’investimento alternative ben più speculative rispetto a titoli di stato a breve termine, correndo rischi superiori a quelli voluti.

Questi sono alcuni tra i principali effetti collaterali di una prolungata politica espansiva.

Tra le motivazioni di una normalizzazione della politica monetaria non va trascurata quella di procurarsi le cartucce necessarie per poter fronteggiare una crisi futura, e questo rappresenta un aspetto che non sfugge alla FED.

Chiarisco il concetto: portare alla normalità i tassi significherebbe crearsi la possibilità di ridurli in caso di future crisi che, altrimenti, sarebbero affrontate senza margini significativi d’intervento.

S’è detto che lo scenario attuale è di ripresa economica con bassa inflazione.

Lo sviluppo da auspicare è ovviamente quello di una robusta prosecuzione della crescita economica accompagnata da un sano rialzo dell’inflazione, deciso ma gestibile.

Sviluppi diversi complicherebbero ulteriormente la posizione della Federal Reserve.

Per esempio, nel caso di deflazione sarebbe costretta a prolungare una politica espansiva che, come abbiamo visto, comporta spiacevoli effetti collaterali.

Con la stagflazione (recessione + inflazione), invece, si troverebbe di fronte ad uno spiacevole trigger, dovendo decidere tra adottare una politica espansiva finalizzata a sostenere la crescita (che però alimenterebbe ulteriormente l’inflazione) o una restrittiva per ridurre i prezzi (penalizzante per l’economia).

Riccardo Fracasso

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