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Con Trump è prepotentemente tornata alla ribalta la parola ‘protezionismo’.

Per protezionismo si intende l’applicazione di dazi e/o vincoli su una parte o su tutti i beni importati.

Mentre i primi protezionismi della storia erano principalmente finalizzati ad aumentare le entrate fiscali del Paese, per i succesivi la motivazione è diventata quella di proteggere la produzione nazionale.

Gli articoli provenienti dall’estero, infatti, sono resi meno convenienti dai dazi.

E’ il nazionalismo che si contrappone alla globalizzazione, il protezionismo che si contrappone al liberismo.

Proprio la teoria liberista spiega gli svantaggi di quella protezionista:

  • minore concorrenza delle aziende con conseguente minor stimolo a crescere e ad innovarsi;
  • la minor concorrenza implica anche minor scelta e aumento dei prezzi (inflazione) per i consumatori;
  • forte penalizzazione degli esportatori nell’eventualità, probabile, che gli altri Paesi reagiscano applicando i dazi allo Stato protezionista.

Il compito di supervisionare e disciplinare il commercio internazionale spetta all’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) conosciuto anche come WTO (World Trade Organization), nato nel 1995, con attualmente ben 164 membri, tra cui anche gli Stati Uniti.

Tra gli obiettivi del WTO vi è proprio quello di ridurre/rimuovere le barriere tariffarie per favorire il commercio internazionale.

Per cui, l’applicazione di nuovi dazi adottata dagli USA va esattamente nella direzione opposta alla volontà del WTO.

Peraltro, secondo un  report di Credit Suisse, già nel Gennaio 2017  gli Stati Uniti risultavano il paese più protezionista al mondo.

Tra i poteri del WTO  vi è anche quello di arbitrare i contenziosi commerciali (mediamente, gli Stati che presentano ricorso vincono al 90%).

In buona sostanza, possibili ricorsi contro il recente protezionismo americano hanno ottime probabilità di essere accolti favorevolmente.

Questo potrebbe portare gli Stati Uniti o a fare marcia indietro o, come ventilato in sede di campagna elettorale da Trump, all’uscita dal WTO, il che rappresenterebbe un evento di notevole spessore.

Personalmente, da una parte sono contrario ad una politica protezionista esagerata, dall’altra lo sono per una globalizzazione selvaggia.

Infatti ritengo che forme di concorrenza sleale (dumping) siano da contrastare.

Mi riferisco, per esempio, alle aziende di quei Paesi che grazie a salari bassissimi e orari infernali, calpestando i diritti dell’uomo, possono offrire prezzi contro i quali è impossibile competere.

Consentirglielo, in un qualche modo significa avvallarne il comportamento, ed al tempo stesso metter in difficoltà le aziende dello Stato importatore.

In buona sostanza, laddove necessario, è mia opinione sia necessario proteggersi.

Tuttavia, le intenzioni da parte di Trump appaiono più aggressive.

Un conto è contrastare la concorrenza sleale, un altro è combattere indistintamente la concorrenza.

Recentemente è stata disposta l’introduzione di dazi su alluminio e acciaio, provvedimento che colpisce principalmente la Cina (anch’essa aderente al WTO), ampiamente al primo posto della classifica dei produttori di entrambe queste materie prime.

Nel caso in cui il protezionismo degli Stati Uniti si ampliasse, i Paesi più penalizzati sarebbero evidentemente quelli con i maggiori legami commerciali con gli USA.

In linea generale l’Europa è area economica esportatrice, il che giustifica le preoccupazioni espresse dai vari rappresentanti.

In particolare, l’export italiano diretto agli Stati Uniti è molto elevato, e l’eventuale innalzamento di barriere commerciali causerebbe conseguenze rilevanti per la nostra nazione.

L’eventuale decisione da parte di Trump di adottare una politica sempre più protezionista, a dispetto delle direttive WTO, potrebbe avere come conseguenza quella di affossare l’Europa (in particolar modo alcuni Stati, come il nostro), una recessione a livello globale contestuale ad un deciso aumento dell’inflazione (scenario di stagflazione).

In tale contesto il mercato obbligazionario e quello azionario avrebbero un motivo in più per scendere, mentre sarebbe favorito il mercato delle materie prime (in primis l’oro).

Si conclude ricordando che una forma mascherata di protezionismo è rappresentato dalla svalutazione monetaria.

In altre parole, queste sfide commerciali potrebbero scatenare guerre valutarie.

L’indebolimento del dollaro rientra a tutti gli effetti all’interno della  politica protezionista americana.

Riccardo Fracasso

 

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